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Sez. Lexis

Ricerca & Critica: PITTURA

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a cura di Federico Caramadre

"IL SEGNO CHE RACCONTA LA STORIA"

Tracce significanti di Giovanni Di Lorenzo

 

 

La teoria del caos parte dal presupposto che l’ordine implica un certo tipo di disordine

Il caos è l’unico mezzo per sopravvivere alla nostra epoca

 

Si è fatto un gran parlare negli ultimi tempi delle connessioni tra arte e scienza, tra scienza e storia. Allo stesso modo in cui si è dato risalto all’interdisciplinarietà (tema caro ai neofiti di qualunque indirizzo creativo come ai professionisti del business), si è affacciata proprio una consapevolezza nuova, per certi versi disarmante: l’arte è questione di tecnica, e dunque di disciplina, così come gli affari o le scoperte scientifiche sono frutto di creatività, e dunque, in qualche modo, di “disordine”.

Ne conseguono, inevitabilmente, due concetti imprescindibili.

Il primo: l’arte è foriera di sviluppi inaspettati, e come tale necessita di una totale abolizione di quelle che potremmo definire le improvvisazioni, troppo lontane da quel sapiente dosaggio di intuito e tecnica proprio dell’artista che esercita con perseveranza la professione, e che siamo usi chiamare esperienza; il secondo: occorre interrogarsi sulla natura di questo disordine apparente.

Stando alla parola degli esperti e dei ricercatori, viviamo in un mondo sempre più “interconnesso”, in cui gli avvicendamenti storici, climatici, economici, non sono sempre accadimenti lineari, dovuti cioè a un diretto rapporto tra causa ed effetto, ma sarebbero bensì la risultante di un complesso ordine di cose, che attinge appunto alla fonte primaria: il caos. Il famoso “effetto farfalla” è l’esempio portato a suffragio di questa tesi: l’ipotesi secondo la quale un battito d’ali di una farfalla in Messico potrebbe influenzare l’andamento di borsa del titolo dei cheesburger in Asia.

In scienza, una iperbole di questo tipo è rappresentata dalla meccanica dei quanti, frontiera della fisica moderna in cui lo studio delle particelle subatomiche ha stabilito che esse agiscono secondo regole affatto simili a quelle dei corpi tradizionali. In altre manifestazioni del fare umano, il “trasferimento” di una informazione da un operatore a un recettore è da sempre accreditato, non senza un qualche pudore, come “energia” in movimento, vocabolo sostituito spesso anche dalla definizione di “magia”, passaggio impercettibile o subliminale di concetti trasportati sull’onda emotiva da un fattore emittente a uno ricevente. Passaggi che lasciano tracce che, a differenza dei quanti, non siamo ancora in grado di calcolare.

 

L’artista rappresenta da sempre un filtro, è un attore agito da ciò che deve mostrarsi a chi lo deve vedere, in altre parole, un tramite tra il caos e l’odierna comprensione che il mondo sensibile ha del caos stesso. Non solo: l’artista rilancia, ogni volta percorre ipotesi nuove, traccia strade inaspettate, suggerisce nuovi modi di “vedere”, “sentire”, comprendere. Distilla dal suo caos tracce di un caos primigenio, le filtra, e le ripropone alla comprensione del lettore rinnovandosi, anticipando nuovi metodi di lettura, evolvendo insieme alla propria opera, e incentivando la visione a correggere lo sguardo, a crescere, ad “alfabetizzarsi”. Della missione educativa che porta sulle spalle spesso ne è totalmente inconsapevole, cosa che ci affranca per sempre dal vincolo di una comunicazione impoverita dal messaggio che taluni intendono, e che allo stesso tempo gli garantisce una onestà intellettuale di fondo. Intendiamoci, questa circostanza non esula dal progetto che un autore è consapevole di perseguire, anzi, proprio tra l’imponderabile che sta tra progettazione ed esecuzione dell’opera si manifesta quella poco conosciuta e ricchissima fonte che ci verrà poi restituita nel momento di un’offerta di compartecipazione ammirata all’esposizione del lavoro compiuto.

 

Da un punto di vista puramente tecnico, Giovanni Di Lorenzo (1939), esercita la pressione del segno incidendo superfici preparate con un intonaco steso su tavola, eseguito con una perizia fuori degli schemi. Quadri di dimensioni ordinarie trovano finalmente la definitiva liberazione dalla cornice e propongono un insieme di pitture a fresco elaborate su supporto rigido agilmente trasportabile. La tecnica pittorica è consona alla tradizione, recuperando in larga misura il ricettario gelosamente custodito delle botteghe d’arte di un tempo, ma i formati qui sfruttati, decisamente più frequentati con la classica tela, e la tavolozza cromatica, in cui a dominare sono, come per gli insegnamenti alla Delacroix, i contrasti tra i blu e gli aranci, restituiscono la descrizione di un passaggio chiave per la ricerca estetica di questo autore.

 

Se dal Cennini il Di Lorenzo trae spunto per il trattamento delle polveri, e dal graffitismo l’idea dell’incisione rupestre come veicolo di comunicazione, i prodotti che ne risultano sono dei veri appunti di viaggio, mediati tra il gusto tutto estetico per l’architettura e la sapienza artigianale dell'arte muratoria. Il muro non è più solo riparo, casa, limite di un nido altrui o fortezza inaccessibile, ma si appropria qui del significato di “testimonianza”, lascito, contenitore della memoria dei suoi abitanti, e in una certa misura dell’artista medesimo, che deciderà di dare risalto a questa porzione di parete piuttosto che a quella. Di porzioni di intonaco infatti si tratta: finestre murate che incorniciano lo sguardo nell’equilibrio intrinseco tra profondi segni di incisione, “graffi”, e dunque vuoti, e i pieni sbordati della materia intonacata con orlature altrettanto lineari, infilati in alchimie luminose che traboccano da un imprinting decorativo che concerne indubitabilmente all’artista.

 

Senza cedere al lusso di una disinvolta conoscenza della materia del decoro e della maestría dell’artigianato, caratteri che appartengono comunque al suo DNA creativo, Giovanni Di Lorenzo si espone alla rivisitazione del muro come alla metafora di un racconto: il segno inciso è storicizzato, vorrebbe farsi cronaca in un gesto, e non è affatto un “graffio offensivo” della superficie, bensì una sua componente, un segno di riconoscimento, una ruga. Così, come il cronista riporta quanto gli sta attorno, e l’opinionista ne mette in risalto taluni aspetti, allo stesso modo l’autore lega queste due esperienze nella sua opera, in un urlo sottaciuto e sommesso, ma ben presente come la ruvidezza di un muro, o i segni nella mano incisa di un contadino, quei segni che descrivono una storia, lontano dal bello effimero delle vetrine, poiché, per dirla con l’artista, “l’urlo più forte è quello che non si esprime”.

Questa funzione propedeutica dell’arte è intesa dal Di Lorenzo come “celebrazione del bello”, quello di una bellezza storica, del tempo trascorso e ritrovato, del bello nel brutto apparente; il bello di una storia letta attraverso un segno qualunque, un graffio, un lascito sconosciuto, una firma d’autore.

Il graffito presuppone un fondo scuro, nero, cromaticamente diverso, cosicché dall’incavo lasciato dal passaggio del gesto allo sguardo, emerga un chiaroscuro tonale secondo l’intensità e la profondità dell’incisione, ma qui la profondità non è più intesa nello spazio, piuttosto è conseguenza del tempo, e non a caso graffio significa anche “uncino”, strumento che si usava e s’usa per recuperare oggetti caduti in un pozzo, il pozzo senza fondo della memoria, la ripartita di quelle superfici nere già sfruttate dall’autore in una serie antecedente, e che preludono a questa collezione odierna e che ancora vi albergano.

Egli cerne dal suo viaggio personale le tracce significanti di un percorso collettivo, estrae continui contenuti dal caos magmatico della memoria per poi annegarli o sfruttarne i segnali, si trincera dietro gli interrogativi, esercita l’ipotesi del dubbio come un’arma a servizio dell’intuizione, e lascia che attraverso i suoi segni il tempo parli la sua lingua, mettendo in risalto quei temi a lui cari e spesso ricorrenti nelle sue opere, come il simbolo chimico dell’acqua, “la fonte della vita”, o lo sguardo focalizzato in una cifra stilistica raffigurante un occhio, considerato fonte di osservazione della vita medesima.

 

La sensazione di un “disordine ordinato” è immediata, e sebbene le opere non si prestino ad una rapidissima e facile lettura, il convincimento che l’aspetto formale esercita sulla sensazione di completezza che impatta ogni lavoro di questa serie, lascia l’osservatore con una indubbia certezza di pulizia, di opera risolta, di rigore del bello.

 Perseveranza, intuizione, tecnica, esperienza, metodo, improvvisazione, sono tutte caratteristiche utili alla genesi di un’opera d’arte, di un percorso artistico, di una ricerca. Aspetti apparentemente insignificanti, piccole variazione tematiche, grandi epifanie, costituiscono l’ossatura della comprensione, e l’imprevedibilità degli eventi coordinati da un sistema complesso, ci fanno guardare con ammirazione e stupore la bellezza di un quadro come l’incanto di un tramonto. Così come la previsione di quel tramonto compete agli dei, e il battito d’ali di una farfalla può influenzare i massimi sistemi, un’opera realizzata in pochi minuti con tracce insignificanti raccontarci anni di storia.

 

Federico Caramadre Ronconi

www.federicocaramadre.com

 

 


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