VITAM IMPENDERE VERO

Scrittura drammaturgicapanoramica sulle opere di Federico Caramadre

un copione teatrale di
Federico Caramadre Ronconi

segnalato nell'Annuario S.I.A.E. Teatro in Italia 2002
Tutti i diritti riservati


Condizioni d'uso
Il testo è tutelato dalla S.I.A.E.
La messa in scena o l'utilizzo, in tutto o in parte, è subordinata alla dichiarazione presso un ufficio S.I.A.E. di zona
Riferimenti:
Titolo Composizione VITAM IMPENDERE VERO
Autore  FEDERICO CARAMADRE
Genere  OPERA PROSA
Data dichiarazione  01/10/2001
Codice Opera 123761

 

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Personaggi

Un Narratore

Un militare

Una ballerina


Nota d'autore

Il testo che segue è la versione adattata per due personaggi, già in scena nonostante il copione fosse nato come un monologo. Uno dei commilitoni, in questo gioco di specchi, assume tra l'altro le vesti di un terrorista. Mi preme far notare che in una prima stesura solo il testo di questo specifico piccolo monologo è stato scaricato da internet in relazione alle vicende dell'11 settembre 2001 e successivamente adattato. Nella versione presente questa parte è stata tolta.



VITAM IMPENDERE VERO

 

Versione per due personaggi

 

BUIO – VOCE REGISTRATA – Chi sono io

 

LUCE: in piedi, al buio, un uomo viene illuminato da un piazzato a piombo, è l’Istrione – immobile.

 

MUSICA: Paolo Conte, “Ouverture alla russa”

 

Durante la musica entra un personaggio che, a vista, sistema uno specchio in prima e alcune suppellettili. Poi fa un passo indietro e si disanima rimanendo immobile.

 

VOCE REGISTRATA: Dove mai sono finiti i perdigiorno di un tempo

 

 SCENA

 

L’Istrione:   Vengo a raccontarvi la storia più cupa dei vostri giorni, storia oscura come un mantello alato, storia che ricopre le sfumature più gaie della vostra esistenza, cedendo al lusso di quelle vertigini dialettiche che i demagoghi chiamano “ragione” e gli sprovveduti “onor del vero”, mentre i pochi savi rimasti collocano senza remore nei meandri della retorica, laddove il cerchio stringe la botte e il legno assorbe vino cedendo profumati spunti.

Cercate tra gli stipi più reconditi del vostro cuore nudo e isolatevi, se potete, dalle creazioni astruse della vostra mente, infatti, chi potrebbe impedirmi di tenere soltanto per me gli avvenimenti che racconto?! E che la cosa non v’impedisca di liberare le intenzioni dalla tagliola del ricordo, le attenzioni dalla trappola del divertimento.

Questo, dunque, l’accaduto: giovani figli di belle speranze regalati alle brame d’una causa ignota, se non nella sostanza, bensì nelle nefande applicazioni, nelle conseguenze infauste.

(PROCLAMA) Piacciavi adunque leggermi con diligenza, e se cosa vi par da emendarla correggetemi... Niuno scrittore mai fu 'sì dotto al quale non fussero utilissimi amici eruditi ed io in prima da voi desidero essere emendato per non esser morso da' detrattori...” (Leon Battista Alberti, De Pictura, libro I, 1436).

 

BUIO

 

LUCE - IL PERSONAGGIO SI SPOSTA IN PRIMA iniziando A PARLARE, A TRATTI COL SUO ALTER-EGO RIFLESSO IN UNO SPECCHIO

 

LUDOVICO (in abiti d’altri tempi): Ho saputo che sono giunti al passo, di nuovo. Che il mondo si avveda del nostro misericordioso impegno. Se lo varcheranno potremo giurare sulla buona sorte di una servile mareggiata verso Itaca. Finalmente di nuovo a casa… E che in terra natìa si ritrovi il dovuto ristoro che ci rinfranchi da queste inutili pene.

L’Istrione:   Che il cielo ti perdoni quando bestemmi con tanta sollecitudine sulle nostre fatiche, e sulle speranze riposte in noi dai nostri padri.

LUDOVICO:        I nostri padri! Mostri violenti che ci hanno condotto all’esilio in nome di una buona causa. Mi chiedo che grado di bontà si possa misurare in un’azione che prevede largo spargimento di sangue.

L’Istrione:   Ma non poteva esserci altro modo. Senza il nostro intervento queste ferite si sarebbero trasformate in piaghe mostruose, dal solco irrefrenabile, e arcigno, quanto il lusso delle colpe che ci hanno condotto a questo stadio in una terra devastata da uomini la cui dissolutezza è un frutto in un campo di ciliegi di cui la distesa si perde davanti al nostro proprio sguardo. Un orrore.

LUDOVICO:        (al pubblico – come se parlasse aL compagnO) Pensa: in quel sangue che troppo spesso abbiamo versato in nome di una giusta causa non sempre risiede una colpa, non foss’altro che un lutto di nascita, quello d’appartenere a un popolo martoriato dall’infamia dei suoi boriosi governanti.

L’Istrione:   Già, ognuno sceglie le sue pene.

LUDOVICO:        Ma lo fa nella misura in cui tutti abbiamo deciso d’esser nati. Questa è l’unica scelta che ci poteva esser data da un germe sano, e che avrebbe dovuto esserci instillata dai nostri genitori, se non altro per amore nostro. Avrei voluto un segnale che m’avesse esortato a rinunciare, colpevoli loro, d’esser troppo ligi al dovuto dovere, e colpevole allo stesso modo anch’io, che speravo di trovar la forza di una mia scelta nello sguardo di mio padre.

L’Istrione:   Ma questo si chiama tradimento amico mio, frena i tuoi pensieri e la tua lingua, o non raccoglierai altro che dileggio.

LUDOVICO:        Io mi inganno, sì, (ALLO SPECCHIO) tu t’inganni LUDOVICO, e sai in cuor tuo di doverlo fare. Ma non preoccuparti, non ti biasimo per questo, e non t’abbandonerò. Solo il pensiero della tua astrusa fede mi conforta, poiché, per quanto astrusa, sembrerebbe essere ancorata a solidi principi, seppure scioccamente applicati. (aL compagnO)Dio è con noi! Te lo ha detto lui?! Faremo ritorno a casa, te lo giuro. E festeggeremo la vittoria con chi più ci ama. Andrò a dirlo al Greco, deve sapere… (FA PER PARTIRE MA VEDE LA SUA IMMAGINE RIFLESSA:)

Chi più ci ama certo. Il mio dubbio è dunque solo questo? (SI DISTOGLIE) È questo quel che penso di me, di voi, di noi tutti, dopo aver visto a quale ingannevole beffa ci hanno voluto spingere i nostri amori più cari?

(ACCUSANDOSI - ALLO SPECCHIO) Io parlo con la bocca e il vigore dell’egoismo.

(A SE STESSO) Uccidere per non morire. Uccidere per non consentire ad altri di continuare a farlo. (APPASSIONATO…) In un discorso così tagliente non vedo la china di una risalita virtuosa (…E DISPIACIUTO) e degna di un popolo benevolo e avveduto come il nostro.

L’Istrione:   Sei severo con te stesso quanto con i nostri nemici, la cosa ti farà onore, certo, ma che non t’allontani dalla tua missione, tua come di tanti altri miei fratelli che sono mossi a compassione e che con compassione si adoperano ai loro doveri militari avendo fede nei valori che contrassegnano le nostre azioni in tempo di guerra.

LUDOVICO SIEDE, LA TESTA TRA LE MANI, PENSA, NON È CONVINTO, INIZIA A SCUOTERLA

LUDOVICO:        Chi compatisce è giudice per definizione caro mio… Dovrei guardarmi bene dal compatire uno qualsivoglia dei miei pari, pure quando fossi certo che pari non sono, sì, per non dover cedere a quella parte di me stesso che adotta la presunzione di sentirsi in diritto di considerare un altro deprecabile perché semplicemente bisognoso d’aiuto, già, come se io fossi poi in grado di assicurarmi alla costanza di un aiuto sincero e senza alcun pegno. Avrebbero dovuto spiegarci come meglio compatire noi stessi, ogni qual volta ci saremmo trovati dinanzi ai cadaveri e alla fame che noi stessi abbiamo contribuito a creare, per spianare la strada a una pace fondata sulla compassione di un popolo su di un altro.

L’Istrione SI ALZA DI SCATTO, COME PER CERCARE QUALCOSA, ANGOSCIATO COME UNA BESTIA FERITA GIRA IN TONDO

L’Istrione:   Che ti succede LUDOVICO? È forse il germe della contestazione che sta attecchendo nei tuoi pensieri?! Non ti permette di vedere oltre quell’apparenza estranea al vero aspetto delle cose, pensa LUDOVICO pensa, anzi no, non devi pensare, non ora, è troppo tardi, sì, agisci, questo è il momento di agire…

LUDOVICO:        e se quello che chiamo germe fosse un germoglio di pace, di fratellanza?!

L’Istrione:   La confusione t’assale. Dimenticherai i tuoi umori non appena giungerà la buona nuova, te lo prometto LUDOVICO.

(IN QUINTA – AD ALTA VOCE) Rallegratevi compagni! È tempo di liete novelle! I Nostri si sono aggiudicati il passo, allora sarà presto tempo d’entrare in città e festeggiare…

LUDOVICO:        I bisognosi ci attendono, con gli aiuti che ci portiamo dietro invaderemo pacificamente con un carico di speranza il domani di queste genti e, in tutte le azioni che qui ed ora mi descrivo, troveremo finalmente il momento di salutare la fine dei conflitti.

L’Istrione:   La tua arguzia non ti ha mai fatto difetto LUDOVICO, e men che non si dica ora. La pace giusta è giunta! I nostri hanno finalmente conquistato l’ultimo presidio di morte del nemico. (IN QUINTA – AD ALTA VOCE) Salutiamo la Nike gloriosa!

LUDOVICO:        Sì, ma la pace si arma con la forza delle parole, non si può conquistare con le armi, una pace giusta non si conquista, si costruisce.

L’Istrione:   Questa casa sarà la più solida che si possa costruire.

LUDOVICO:        Una casa grondante sangue dalle sue pareti le cui fondamenta poggiano fra le ossa di quelli che una volta erano i suoi padroni e abitanti.

L’Istrione:   È finita, li abbiamo fermati. Il mondo ci sarà riconoscente!

LUDOVICO:        No. Non li abbiamo fermati, si sono uccisi. Ne verranno degli altri.

L’Istrione:   Ho sentore di disagio circa la nostra vittoria, che pensieri sono mai questi? È solo la mancanza degli affetti più cari che prende spazio quando le difese vengono meno dopo la vittoria. Avanti LUDOVICO, cedi terreno alla gioia, da domani entreremo in città e lì potrai recuperare il tempo perduto, e che il cielo abbia un occhio di riguardo anche per noi allora!

(al pubblico – come se parlasse ai compagni)

I discorsi del generale… «Oggi è un grande giorno», ha detto. «Le persecuzioni agli inermi sono finite, le armi tacciono. Abbiamo operato in fede e con forza per le mire e le sofferenze degli oppressi e abbiamo avuto ragione! Renderemo ancora onore alla nostra patria portatrice di antico valore e fulgida speranza nelle lande dove si affollano moltitudini di profughi, e che la consapevolezza del compito enorme che ancora abbiamo di fronte ci illumini e ci sostenga com’è stato fin qui, fin’ora. Dio è con noi. La pace portata dal nostro paese deve affermarsi durevolmente in queste terre, questo ora il nostro nuovo compito al quale, con onore, ci dedicheremo. Salute a voi!».

LUDOVICO:        La pace della nostra patria deve affermarsi in queste terre. (al pubblico) Dimentica che queste terre non sono la nostra patria, il Generale; (ALLO SPECCHIO) non fosse che forse a torto il giorno a divenire splenderà di nuovo il sole?

 

 

BUIO

MUSICA

INTERMEZZO

 

 

RIENTRA L’ISTRIONE

 

sotto un piazzato dalla parte opposta

 

L’Istrione:     Genti di molti luoghi a sentir le nostre storie qui raccolta, potremmo raccontarvela così la vicenda del militare LUDOVICO con la sua solerzia e il suo dilemma, così, prendendo in prestito parole da una prosa ricca, merlettata e gingillosa, ma, ahimè, desueta e compunta. Potremmo aggiungervi costumi sfavillanti, balletti puntuali o minigonne, potremmo propinarvi canti, cori e musicanti, oppure potremmo tentare di chiamare le cose con il loro nome, così: (ESCE).

 

LUDOVICO (in abiti dei giorni nostri)

- ancora in prima, seduto -

 

Uscito dal bar vidi quel coglione d’un ex militare del Greco. Quel cazzo di Greco aveva deciso di farsela a piedi, a piedi, tutta a piedi, e sapeva bene che avrebbe potuto ritardare e che i ritardi davano noia a tutta la compagnia e che tutti gli avrebbero attaccato una gran sega se fosse arrivato tardi. Però che palle, se gli andava di camminare mica era colpa sua, insomma, è che era stressato da tutta una serie di situazioni, specie sessuali, sentimentali, quelle, che gli tagliavano il respiro. Tagliavano.

L’orologio, passo dopo passo a guardare in continuazione l’orologio, già sapeva di far tardi, l’orologio, attrezzo ordinatore di cori, i cori delle scadenze e degli accadimenti, come quell’altro attrezzo, quel cazzo di cellulofono da tasca che aveva sempre dietro, un altro ordinatore di cori, i cori dell’avvicendamento dialettico del “come stai dove sei che fai a che ora ci vediamo richiamami più tardi no ti richiamo io a presto magari ci sentiamo”, stesicoro di merda, stesicoro cieco come lo Stesicoro Tisia, ordinatore di cori greco divenuto cieco per aver detto male di Elena, l’Omero dei poeti lirici, sì, diventerà cieco pure lui, il Greco, Omero dei coglioni, diventerà cieco se parlerà male della sua di Elena, ognuno ha la sua, si sa, ognuno ha la sua storia, ordinatori di cori, uno sguardo all’orologio e una telefonata ricevuta: era lo squillo di quel telefono che portava con sé come fosse un’appendice ambulante e che diceva “mi raccomando non fare tardi, a che punto sei?, sei per strada?, per strada che vuol dire?, che vuol dire per strada?”, insomma, solo una telefonata di verifica della sua donna, tanto stava arrivando, anche se sarebbero arrivati prima gli altri, ma che poteva farci?! Almeno aveva una sua Elena lui, anche se era sempre lì, pronta a ricordargli questo o quello. È che al bar gli avevano fatto perdere tempo, e intanto tutti gli altri erano passati lì davanti molto prima, figurarsi quanto fossero in anticipo rispetto a lui, ma insomma, che diavolo poteva farci se aveva voglia di camminare?, che diavolo poteva farci se quel telefono squillava ogni due minuti rallentandogli la marcia?, che diavolo di cazzo ci poteva fare se quel cazzo di telefono gli era caduto proprio in mezzo a quel cazzo d’incrocio perdendo la batteria tra il rosso e il verde di quel cazzo di semaforo?! Eh già, che diavolo poteva farci, lui, se il rosso del pedonale scattò prima che fosse riuscito a passare dall’altra parte, sì, per colpa di un gruppo di turisti tutti in fila dietro uno là davanti che agitava un coso come un foulard che impediva il passaggio degli altri pedoni al centro dell’incrocio?

È che somatizzava troppo, sì, avrebbe somatizzato tutto quello stramaledetto stress nelle viscere, che sentiva scendere giù come fosse un magro astenico, già, è che era strano il Greco, obliquo, era uno obliquo, con una cazzo di mente tanto percettiva quanto assente. Ma non era così… Che colpa ne aveva lui se quando entrava negli ascensori di case mai viste spingeva sempre l’interruttore del piano giusto e se gli chiedevi “come mai proprio quello” ti rispondeva “quello quale”, “quello che hai premuto”, “perché quale ho premuto?”.

È che era uno così, uno del cazzo, e allora che colpa poteva avere lui, se quando finalmente fu il suo turno di attraversare gli squillò ancora una volta il telefono che portava in tasca e per prendere il telefono gli caddero le sigarette e le sigarette bianche a gessetto nel pacchetto piatto da venti vennero schiacciate e frantumate a terra dal piede di una vecchia claudicante e la vecchina ignara di tutto quel danno gli chiese pure aiuto per attraversare, che colpa poteva avere lui se estrasse una Bodeo modello 1889, sì, da quella cazzo di tasca, no, non quella del telefono, che colpa poteva avere lui se in tutta quella confusione sbagliò infilando la mano nell’altra, e da quella cazzo di tasca

quel       maledetto    bastardo      estrasse

una bodeomodellounottottonove, e senza pensarci, ma senza pensarci proprio, con tutta quell’autentica enorme ingarbugliata flemma che lo contraddistingueva, con tutta quella cazzo di flemmatica flemma del cazzo tipica del Greco, che colpa poteva avere se in quella diavolo di stressante stronzissima situazione si girò verso la vecchia puntandogliela dall’alto in basso sulla tempia facendole saltare in mille schizzi e pezzi e brodaglia quella cazzo di faccia che continuava, fino a un millesimo prima di realizzare che stava per essere dilaniata da una pistola, a chiedergli una mano per attraversare la strada pestando con sistematica inosservanza della morale di un fumatore incallito e per di più in ritardo le sue bianche a gessetto distogliendolo pure da una telefonata di rimprovero tra un colore e l’altro di un semaforo che non cambiava mai quando doveva ma che era troppo solerte al momento sbagliato.

Un solo unico frammento di secondo per volgere l’attenzione in alto, su quella mano di quel braccio di quel signore distinto che stava estraendo, no, che aveva già estratto, che puntava una cazzo di pistola a rotazione a ripetizione ordinaria calibro diecimillimetrietrentacinque da sei colpi con tiro continuo e intermittente, tipo alleggerito da 785 grammi con canna corta da 90 mm, residuato bellico in dotazione alle forze armate financo qualche anno dopo la guerra, pistola rozza ma ben congeniata, pistola sul cranio della vecchina assolutamente esterrefatta e già macedonia. Poi, come se nulla fosse, attraversò la strada.

Iatrochimico Paracelso.

Aveva un appuntamento e stava facendo tardi il Greco. Ecco.

Ibis redibis non, morieris in bello. Andrai, non tornerai, morirai in guerra.

Nessuno è innocente.

Ibis redibis non morieris in bello. Andrai, tornerai, non morrai in guerra.

Cazzi tuoi, Greco.

 

MUSICA: Billy Bragg & Wilco, “California stars”

 

BUIO - RIENTRA L’ISTRIONE – IN PRIMA

 

L’Istrione:     Un po’ scontato. Un po’ scontato. “Unpòscontato”. Certo, avrebbe sempre potuto dire cose come “la prego non se ne abbia a male se mi accingo a spappolarle il cervello, è che non posso esimermi dal farlo, sa, è nella mia natura”. Già. In questa storia ci sono troppi se, non si va da nessuna parte così. E non si parla di gente normale. Gente normale. La normalità è solo una gran confusione. Figuriamoci la normalità dopo una guerra. Il sangue ha lo stesso colore in tutto il mondo. La gente normale la incontro ogni giorno, in ogni occasione. E non sa più che raccontare, che raccontarsi. Allora si spara addosso perché non sa che dirsi. Oppure parla per slogan, per non pensare, che sia da una parte o dall’altra. Oramai non si racconta più niente, neppure l’arte è in grado di raccontare qualcosa, salvo l’incapacità di raccontarsi. Salvo. Che strana parola. Detta così sembra avere tutt’altro significato. Salvo.

Era quello che tutti speravamo, salvarci. Altro che vendetta, la vendetta migliore era restare vivi. Tutte quelle chiacchiere alla partenza: “La vostra è una grande missione, in voi sono riposte le speranze del mondo civile…”. Chissà se ai ragazzi nemici hanno suonato la stessa musica; sì, ragazzi. Me li immagino, lì, i loro superiori, le loro guide, tutti impettiti a dirgli: “Voi siete gli eroi del nostro popolo, grazie a voi il bene vincerà sul male…”. E il male eravamo noi, dall’altra parte, a dire che il male erano loro. (PENSA – IMMAGINA DI PARLARE CON I SUOI COMPAGNI) Che c’è successo ragazzi? Eravamo noi, lì, dietro i banchi di scuola, sembra ieri, a chiedere suggerimenti durante l’interrogazione, a lanciarci gessetti e cancellini tra un’ora e l’altra, le merendine durante la ricreazione, a barattarle, eravamo noi, siamo lì, vedete?! Guarda Greco, stiamo giocando a figurine, e stai vincendo ancora, vincevi sempre tu. Sì, lo so, tu hai sempre odiato quel soprannome, ma ce l’avevamo un po’ tutti, mi chiamavate “Spicchio”, ricordi?! E quel giorno che il preside mi ha beccato in bagno durante la lezione di matematica e m’ha sollevato da terra tirandomi per le orecchie… Io vi vedo ancora tutti così, bambini; sì, qualcuno oramai ha la barba, qualcun altro i figli, ma siete solo bambini un po’ cresciuti dopotutto. Impauriti come loro, sì, qualcuno fa la voce grossa, e tanti sono partiti con me. E tanti sono tornati. Ma non dormono più. Neanch’io. Anch’io non dormo più. Ho perfino paura di chiudere gli occhi. Quella era gente come noi. Soffriva, come noi. E come noi sognava un mondo migliore. Siamo solo stati trascinati tutti da un branco di pazzi; di sprovveduti. Che c’è successo amici miei? Davvero abbiamo permesso che capitasse tutto questo? Ma come abbiamo fatto? Io vi vedo ancora lì, dietro quei banchi, a giocare a fare gli innamorati tra un banco e l’altro - “la sposerò da grande”, dicevi – e i professori dall’altra parte a richiamarci all’attenzione, a noi, che vivevamo nel migliore dei mondi possibili, dove non poteva capitarci niente di male, sì, c’erano state delle guerre, ma oramai il mondo era cambiato, e leggere di cose assurde sui libri di storia era come vedere un film in televisione che raccontava di fatti lontani, impossibili per noi, e quegli uomini e quelle donne ad insegnarci gli orrori delle guerre, le geografie cambiate, sì, ma anche che il mondo era cambiato, e che la più grossa battaglia adesso era in favore dell’ambiente, ve lo ricordate?!, bisognava salvarlo, e bisognava essere fratelli con tutti i popoli, e poi… Ma che è successo, davvero siamo diventati tutto questo? Vorrei addormentarmi per svegliarmi da un incubo. Ma sono riuscito a dormire solo tra le tue braccia, amore mio. Non riuscivo mai a prendere sonno, ricordi? Allora ci prendevamo per mano, e ci addormentavamo insieme. E adesso, dove sei? Che fine hai fatto?

 

CAMBIO LUCE - RIENTRA LUDOVICO – IN FONDO

 

LUDOVICO (in divisa): Siamo di Dio e a Dio torniamo. E che ciascuno, in nome di Dio, testimoni che sono morto come  un credente, nel credo della religione di Dio. Dio è con noi.

 (Nota: testo scaricato da internet)

ESCE - CAMBIO LUCE

 

 

L’Istrione:     Se solo avessi potuto vedere quei posti. Noi andavamo a farci la guerra, con te saremmo potuti andare per un viaggio. Ti piaceva così tanto viaggiare… Te ne sei andata prima di tutti gli altri… Alla cerimonia il sacerdote ha detto che la morte non è che un inizio, l’inizio di una nuova vita, la vita eterna, e che di là ci ritroveremo… Ci sarai davvero? È davvero questa la verità?

A Parigi, quel museo tutto di legno, ricordi?! Ti sei fermata, fissa, in piedi, davanti a quella vetrina. Il cachet di Jean Jacques Rousseau e un lapis, una matita, quella frase annotata: “consacrare la propria vita alla verità”. Era latino, ma tu lo capivi. Quella frase ti aveva come ipnotizzata, ricordi?! Sì, ma qual è la verità? La verità è che morte porta morte, e che non vedrò più il tuo sorriso, e che per riscattarlo sono partito con un’arma in pugno, e con quella è come se ti avessi uccisa per la seconda volta… Vitam impendere… Nessuno è innocente.

Era fresco quella mattina, l’aria era così tersa che si poteva vedere fino a valle. C’era un villaggio, giù in fondo, e da alcuni fabbricati saliva ancora il fumo. Dovevamo scortare gli ufficiali dell’ultimo contingente che si ritiravano insieme ai diplomatici e ad altri rappresentanti di un po’ tutte le parti. Il Greco era in testa alla colonna, io quasi in coda, e dietro di me gli ultimi carichi della croce rossa internazionale. Tutt’intorno era calmo. Non si sentiva un solo scoppio, non uno sparo, nessuna granata, nessun grido. Avevo per la prima volta la sensazione che tutto fosse davvero finito. I visi erano distesi, tanto che avevo dimenticato l’ultima volta che avevo visto su qualcuno tanta serenità, tanta pace. Era bello, davvero. Ci fermammo lungo un pendio. La testa della colonna arrestò il convoglio sulla curva di un tornante interrotto, una frana. Era un imbuto. Ci fu un boato. Fu una strage. Sembrava fossero dappertutto. Era incredibile, la zona era stata bonificata da settimane invece quelli sembravano essere dietro ogni albero. Alcuni riuscirono a scendere, e furono decimati. Altri rimasero intrappolati sui mezzi. Non capivo più niente. Dietro di me un mezzo della croce rossa esplose schizzando schegge dappertutto. Mi riparai sotto un carro. Quando sporsi la testa vidi il Greco che sparava verso di me. Un corpo mi cadde vicino. Stava per uccidermi. Allora mi feci coraggio e mi tirai fuori carponi, in tempo per vedere un altro che puntava dritto il Greco che nel frattempo sparava altrove. Afferrai la pistola, ma non feci in tempo. Quello sparò, e un commilitone vicino al Greco cadde a terra, era poco più che un ragazzo. Poi sentii un sibilo, e un altro, e un altro ancora. E tutt’intorno nel bosco fu fuoco, e fiamme, e caldo infernale. Erano gli elicotteri, i nostri. E quelli che stavano più vicino alla colonna che scappavano come meglio potevano. Compreso quello che aveva tentato d’ammazzare il Greco. Potevo vederlo inoltrarsi su tra gli alberi in un corridoio risparmiato dalle fiamme. Sparai. Aveva la tua età, ed era così bella! Quando le scoprii il viso per vedere da vicino la faccia di quel bastardo che aveva sparato a quel ragazzo e che ero riuscito a fottere mi si gelò il sangue. Ti giuro, amore mio, peggio di una lama in gola, peggio di mille torture, peggio, peggio ch’essere infilati da parte a parte, peggio che morire di tradimento, peggio, peggio che pisciare sangue.

Era lì, bella come una miss patinata, che moriva sotto i miei occhi, così simile a te da uccidermi con il solo sguardo, mentre si teneva le budella con le mani tutte insanguinate, come per trattenerle dentro di sé, sì, era lì, che stava morendo per causa mia, e prima di chiudere gli occhi mi sorrise. Sì, ti assomigliava, e mi sorrise, di un sorriso sincero, e fu come se m’avesse ucciso lei per la seconda volta. Quel giorno piansi, e ti pensai. Immaginai di vederti in quel momento lì, mentre te ne stai andando, mentre sorridi a un nemico che ha la mia stessa età, e che ti ha uccisa, come t’ho ammazzato io uccidendo quella donna, lasciandoti morire per la seconda volta…

SI LASCIA CADERE A TERRA – SI COMMUOVE

Mi manchi. Amore mio mi manchi. Lo vuoi capire o no? Vuoi capirlo o no? Mi manchi.

Sì, sì, dico sul serio, sì sul serio, mi manchi, ti voglio, ti desidero, vorrei tu fossi qui anche se non ci sei, vorrei sfiorarti, sentirti vicino, girarmi e poterti vedere, vorrei poter allungare la mano e carezzarti, vorrei baciarti tutto il tempo, sì, tutto il tempo, ho bisogno di stare con te, ho bisogno di te, ho bisogno di addormentarmi, addormentarmi con te, dimenticare la tua mancanza e sognare che quest’incubo sia solo un brutto sogno.

 

 

MUSICA

 

 

BUIO

 



Federico Caramadre Ronconi
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