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CAPODANNO AL MC DONALD’S DI ARLES

Scrittura drammaturgica

un monologo di
Federico Caramadre Ronconi

segnalato nell'Annuario S.I.A.E. Teatro in Italia 2002
Tutti i diritti riservati


Premessa
Riscritto in qualche ora, in piena solitudine natalizia e lontano dal mondo variopinto delle lucine fotocromatiche, il testo teatrale che partiva dell’originario adattamento de “Dalla Colonia Subnormale”, reimpaginato insieme a porzioni di “Cursus Philospophiae” e pensato al femminile, ha dato luogo a un soggetto cinematografico successivamente rivisitato in chiave teatrale, per questo che non è propriamente un monologo, e per un’altra versione a più personaggi che non è neanche una commedia. È pura cronistoria di un capitolo dell’esistenza, come a volte essa si presenta, assolutamente distante da quello che è, e più vicina, piuttosto, a quello che sembra.

Nella pubblicazione web che segue, il testo è stato volutamente "ricucito", togliendo i nomi dei personaggi chiamati a parlare, per restituire l'idea di continuità del discorso.
Nel caso di un uso teatrale, i colori segnalano le parti del testo cui si riferiscono i personaggi e i diversi "piani di lettura".

Legenda
Colore rosso: narrazione del film, letto o immaginato
Colore verde: digressioni della protagonista

Prima coppia (in metropolitana)
Colore bordeaux: discorso diretto, pensiero di LEI (personaggio immaginario)
Colore blu: discorso diretto, pensiero di LUI (personaggio immaginario)

Seconda coppia (al bar)
Colore lilla: discorso diretto, pensiero di LEI (personaggio immaginario)
Colore celeste: discorso diretto, pensiero di LUI (personaggio immaginario)

Condizioni d'uso
Il testo è tutelato dalla S.I.A.E.
La messa in scena o l'utilizzo, in tutto o in parte, è subordinata alla dichiarazione presso un ufficio S.I.A.E. di zona
Riferimenti:
Titolo Composizione CAPODANNO AL MC DONALD'S DI ARLES
Autore  FEDERICO CARAMADRE
Genere  OPERA PROSA
Data dichiarazione  01/10/2001
Codice Opera 123760
 

 

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CAPODANNO AL MC DONALD’S DI ARLES

Al suono di un pezzo jazz: Lou Rawls; “nobody but me”

Sipario

Partimmo presto, era all’alba. L’asfalto era traslucido come una lingua di lavagna appena lavata. Dal lunotto posteriore potevo vedere file di alberi che scappavano via come tanti soldatini allineati. Me li sarei trombati tutti, uno a uno. L’idea di scappare per un po’ in Portogallo tutto sommato non mi dispiaceva, avremmo dovuto attraversare Francia e Spagna, dicono che la cucina francese sia raffinata, e gli spagnoli gente muy caliente, e io sono di bocca buona, mi piace concedermi il lusso di assaporare nuovi orizzonti, mi piace qualsiasi lusso.

Fu presto frontiera. E fu una notte all’addiaccio passata tentando di dormire in auto, nel grande parco-parcheggio di una stazione di sosta subito dopo il confine. Per riscaldarci bruciammo litri di benzina, credo, ma nelle stanze di quella specie di motel autostradale avremmo sicuramente speso di più. I francesi chiedono soldi come se niente fosse. Moneta unica e prezzi difformi. Le loro stazioni di servizio sono desolanti, tutto automatico, tutto incartato, perfino il caffè è servito da una macchina, e l’acqua non sa di niente. In compenso ai caselli non automatizzati il pagamento è risolto da avvenenti fanciulle, gioia delle orde di turisti italiani che attraversano questo lembo di terra verso le vacanze spagnole, e che iniziano a biascicare stronzate in un improbabile quanto improvvisato italo-francese.

È chiaro che non fossi sola, vi chiederete con chi viaggiassi. Non è importante.

Immaginate:

una storia d’amore, un vagone della metropolitana. Un uomo e una donna, amici segreti, amanti per tacito accordo. Non si conoscono, tranne che di vista, non hanno mai parlato tra di loro. E tutti i giorni si ritrovano lì, stesso vagone, stessi seggiolini, e si toccano, segretamente, per quel tacito accordo, si strusciano, si carezzano, così, sotto gli occhi di un pubblico ignaro, e senza scambiarsi una parola si separano, così, tutti i giorni. Strano gioco erotico. Proprio una perversione da scrittore. Ma come fanno quelli che scrivono film a immaginare storie così assurde?!

L’assurdo e la follia, già. Temi del film che avremmo dovuto girare a Sétubal, poco distante da Lisbona.

Avete mai visto il grande ponte che attraversa il fiume Tejo? Col Cristo Rei, enorme. Ti fa pensare a “lisbon story”, e a “notti selvagge”, e a Rio. È un’esperienza unica passarci sopra. Senti il rombo di tutte le auto che marciano unisone, a volte cammini su una griglia e sei altissimo sull’acqua. Dio, che bello, speravo d’arrivare presto.

Il viaggio sarebbe stato lungo, dovevamo attraversare tutta la Spagna.

Avevo una bozza del film con me, in auto. E non facevo altro che leggerla e rileggerla.

(NEL FILM) Ha l’aria assente, un modo che abbandona di colpo, ogni tanto, per guardarsi intorno, quando non pensa, lui, lui, quell’uomo che è seduto appena quattro tavoli più in là di lei, e che la sta guardando,

eh sì, sta proprio occhieggiando, meglio girarsi, fare finta di niente,

brava, fingi di non avermi notato, altrimenti rischi che m’avvicini, e se facesse così anche con gli sconosciuti?, accidenti, sarebbe un guaio, eh già, magari è per questo che mi ossessiona tanto con la gherminella, il motteggio sui tradimenti, magari è lei la prima,

è un’altra storia d’amore, la seconda, poi un bar, o un fast-food. (RACCONTA) Quell’uomo e quella donna si conoscono, ma fanno finta di no, simulano un approccio, un rapporto sessuale improvviso tra due sconosciuti, recitano una parte. E tutti i giorni si ritrovano lì, stesso bar, stesso bagno, e si amano, segretamente, come per uno strano gioco erotico, si incontrano, consumano furtivamente, così, con la possibilità che intervenga da un momento all’altro un pubblico ignaro, improvvisato, e senza scambiarsi una parola si separano, così, tutti i giorni, per ricongiungersi di nuovo in metropolitana.

Altra perversione da sceneggiatore, strano modo di guardare alle cose del mondo, non vi pare?!

(TORNA AL VIAGGIO) Superammo presto Brignoles, a circa ottocento chilometri dalla partenza, quando l’auto iniziò a dare i primi strani segni di cedimento, borbottava. Insomma, qui avrete già intuito che fummo costrette, nostro malgrado, a fermarci presso Arles. 29 dicembre.

Altro che Lisbona. Vallo a trovare un meccanico, un meccanico francese poi, i francesi tutt’al più possono tagliare stoffe, non ce li vedo proprio a sporcarsi le mani con cinghie, pompe dei freni, guarnizioni della testata, pasticche radiatori spinterogeno… Ma ve lo immaginate?

Un energumeno con le mani sporche di grasso un po’ stempiato che con tutte quelle erre mosce e quegli aspirati vi dice con aria saccente e un po’ checca da creatore di moda che la vostra auto è un modello sorpassato e lui non sa dove reperire i pezzi. Magari anche un po’ scocciato. No grazie.

E comunque voi riuscireste a trovare un meccanico francese a ridosso di capodanno in un luogo dimenticato da Dio, nei pressi dell’autostrada, un luogo che è una specie di zona commerciale, piena di capannoni che ti vendono questo e quello, e che vicino ad ogni capannone c’è un capannone ristorante che ti fa mangiare questo e quello?! Qui bistecca alla Buffalo Grill, lì cucina messicana, una birreria irlandese, di là coloratissime ghiottonerie americane, poco lontano take-away cinese, un finto pizza-espresso italiano, e un Mac. Non sono mica sicura d’essere in Francia.

Di case ovviamente neanche l’ombra. Voglio dire, di giorno questo posto brulicava di formichine con pacchi regalo che uscivano di qui e entravano di là, ma la notte, la notte c’erano solo i neon delle insegne luminose a farti compagnia, proclamando questa o quella offerta speciale, sottolineando il sapore di questo o di quel ristorante. Di case abitate neanche la puzza. Il Mac era l’unico posto che restava aperto fino all’una di notte, per i viaggiatori che per puro sbaglio si fermavano da quelle parti. Di meccanici neanche a parlarne, fino al due gennaio tutti in vacanza.

Vacanza.

(VIAGGIO) Anche per la mia compagna di viaggio era vacanza. Due settimane, due. Poi il lavoro l’avrebbe richiamata a sé, quindici giorni di ferie l’anno, quindici giorni per coltivare amicizie e legami di sangue sparsi qua e là per il mondo, quindici giorni per ritemprare il corpo e lo spirito e poi giù, di nuovo giù, a produrre come macchine beni e servizi che non avremo mai il tempo di goderci. Intanto il mondo è invaghito di termini come sviluppo, benessere; di valori quali la famiglia, i sentimenti, la compassione. Si sente dappertutto, bisogna incrementare il prodotto interno, sostenere la bilancia commerciale, incentivare i consumi, l’imprenditoria, creare nuovi posti di lavoro, produrre ricchezza. Una passeggiata diventa un lusso da pensionati e una rischiosa corsa in auto la normalità di tutti i giorni, è una corsa che ti impedisce di dedicare un po’ più del tuo tempo a una nonna, a un figlio, a un cane, che quando arrivi ti guardano con espressione benevola, tutti e tre, nonna figlio e cane con la stessa espressione, e si vede che avrebbero tante cose da dirti. Non stupitevi se un giorno o l’altro il vostro cane inizierà a parlare, sicuramente sarà per dirvi quanto siete stronzi, perché non giocate mai con lui e gli buttate continuamente ossi veri e finti convinti che sia la soluzione di tutti i suoi problemi, cose così, magari fatte di niente, per condividere la loro esistenza con la tua, cane figlio e nonna in ordine d’accoglienza e di questua, e allora sull’incrocio di quello sguardo ti si stringe il cuore, ma il tuo alibi è forte, il lavoro ti porta via tempo, e si sa, il lavoro è un valore assoluto, in nome del quale si è disponibili al trillo di un telefono portatile in ogni momento, perfino al cesso, e se quella chiamata interrompe una conversazione con tua nonna, conversazione, un altro eufemismo, insomma, se interrompe quel dialogo lì, pazienza, dopotutto stai lavorando per migliorare anche la qualità della sua di vita, così potrai comprarle uno schermo più grande e lasciare che si goda in santa pace il suo totale annullamento davanti alla sua telenovela preferita.

(FILM) Ingombra il suo bivacco quotidiano da sola, un piano più su, lui vive alla C, lei alla E di un altro alfabeto, così che non ci si possa congiungere neppure in ascensore, però lei ha costanza, l’ha fregato bene lì nel vagone, cinque mesi di appostamenti lascivi, una bramosia vicino all’altra, senza dichiararsi mai per intero, là, sempre su quei seggiolini di plastica rubiconda lisciati dalle terga di migliaia di passaggi, centinaia di terga prostranti il perineo in un parcheggio delirante di fissità posticce, amore, ancora amato amore…

(AL MAC) Ordino birra, “de la... birra, s’il vous plait!”.

PENSA e RICORDA “And in Paris, you can buy beer on Mc Donald’s”… Pulp Fiction, lo dice uno dei protagonisti, che sceneggiatura quella, e che paese triste l’america, è un posto dove non hanno il senso della misura, così ai Mac è vietato somministrare alcolici, ridicolo, per fortuna l’Europa ha ancora un suo cervello, che paese triste, un paese pieno di norme e divieti non migliora la vita dei suoi cittadini, li ingrigisce, li rende tristi, e obesi, di nervosismo. E noi? Quante discussioni davanti alla multa dell’autovelox, o per un divieto di sosta, o un mancato pagamento, ma fateci tornare a parcheggiare ovunque, era meglio quand’era peggio, e non mi pare proprio che strisce e zone blu mi semplifichino la vita. Tua nonna, la vedi? Invece di parlare con te sta chiedendo a quel cretino baffo e cappello da soldato protagonista della soap perché l’ha tradita, perché ha ingannato il loro amore, «Stupido!», dice, «Ti sta bene, così impari a correre dietro alle femmine!», è lì, e lo sta dicendo al televisore, invece di raccontarti cosa ha provato quando sei venuta al mondo, e cosa tu significassi per lei e per suo marito, e che emozione e quale impegno e quale soddisfazione fosse stata darti un tetto nonostante una guerra, eppure potresti essere proprio tu a chiederle «Con che cosa giocavi da piccola, nonna?», hai mai provato? Già, perché anche lei è stata bambina come te, cosa credi, «Ai miei tempi non avevamo i giocattoli, non c’era neanche il telefono, gli adulti usavano il telegrafo, e dovevano andarci, c’era un ufficio, ma la maggioranza scriveva e andava alle poste»; «Sì, sì, scusa ma adesso sono connessa, un attimo, mi racconti dopo, sto scaricando una mail da Philadelphia…»; «Che fai?», «Niente nonna, lascia stare, è posta, che dicevi, che dicevi del telegrafo?», o vedere la tua reazione al primo regalo ricevuto. Cose così, un po’ fuori moda, cose out, Dio mio voglio essere out anch’io, diffidate da tutto quello che è in, dietro l’angolo dell’in c’è la fregatura, e quella arriva proprio in, come un treno, cose così, niente affatto interessanti come l’ultima offerta del gestore di telefonia mobile, che ti offre di parlare con i numeri a te più cari, i tuoi amici, la tua famiglia, alla metà della tariffa applicata la notte dei giorni festivi verso i numeri dello stesso gestore o dei gestori associati presenti in tutto il mondo che usino la stessa rete di comunicazione dedicata all’utilizzo privato verso tutti i prefissi numero datemi un libretto per le istruzioni e intitolatelo come fregarti il cervello sarò ben felice di passarlo a mio nonna che ne farà una nuova ricetta. Cose così.

BEVE

Scegliere significa libertà, ma certe scelte sono una prigione, perché ti rubano il tempo, il tempo che è concesso alla tua vita buttato dietro la lettura di un’etichetta di un dentifricio o di uno shampoo tra gli scaffali di un centro commerciale che ti offre trenta versioni della stessa cosa ma a prezzi diversi e con piccole varianti sulla confezione, quale mi compro oggi, questa mi regala una maglietta, quest’altra una collana a punti, ma tu già sai che non ti serve né maglietta né collana, forse avresti bisogno solo di un po’ più di tempo per te, ma anche tu avrai le tue ferie, intanto con il fluoro sbiancante alle perle attive attivo per ventiquattro ore puoi lavartici i denti. Preferisco di gran lunga mangiare un panino sotto l’ombra di un albero che una cosa avvolta nella plastica sotto quest’aria condizionata. Ma forse sono solo annebbiata dal fatto che sono costretta a restare qui. E stare in attesa, così, sospesa tra un viaggio e l’idea di un film, mi obbliga a pensare, a leggere tutto quello che mi trovo intorno. Occorre dedicarsi del tempo per capire che cazzo ci stiamo a fare, qui. È un treno in corsa, una corsa folle. Il mondo se l’è costruito, e ora deve iniziare a capire dove sono i freni, prima delle curve. Prima che qualcuno ci presenti il conto.

BEVE – LEGGE

(FILM) Ma sì, dopotutto ci si veste tutti un po’ vestiti a caso, comodi di quella comodità che toglie tutto, pure la bellezza, il gusto, lo stile,

eppure lei stile ne ha, non come il suo lui trovato in metro, certo,

che diavolo avrà da vestirsi sempre uguale a se stesso.

Oh, lesina divina, beata tesaurizzazione, se l’amicizia fosse amore, quale tributo, e quale pegno, quale salasso pagheremmo, quello di non dover più combattere con i mostri della gelosia, dell’imbarazzo immolato alla sfiducia, alla paura di non esser più i destinatari di quelle attenzioni.

Mah, che vorrà dire?

BEVE

(MAC) La mia compagna di viaggio si è innamorata di un francese col berrettino a busta di là dal bancone del Mac, è carino, un po’ troppo francese forse, ma tanto non avrà abbastanza tempo a disposizione per coltivare quest’amore, io penso. Qui fuori c’è una fermata del metrò, chissà dove porta. Magari potrebbero scappare insieme da questo mondo proprio in metropolitana, il loro treno dei desideri ha la fermata a un passo. Insomma, può andarti bene se chi scegli o chi ti sceglie vive nel raggio di venti, trenta chilometri. Allora c’è qualche possibilità che la storia possa avere un seguito, che non si incarti tra gli impegni dell’uno e dell’altra. In nome di un valore, il lavoro, si rinuncia a un valore, l’amore, ma si sa, il lavoro ti permette di vivere, l’amore invece dà solo un senso alla tua stupida esistenza, che senza impiego, del resto, è poco probabile. A meno che non si rinunci a tutto, tutto nel nome di un amore, un buon titolo per un film. Chissà se riuscirò mai a farlo.

La mia compagna di viaggio dovrà andare a farsi fottere, lei e la sua stupida macchina. Capodanno al Mac Donald’s di Arles, me l’avessero prospettato alla partenza… Non sarei partita neppure se il regista m’avesse proposto un film da protagonista, altro che adattamento dei dialoghi, adattami questa situazione, se ne sei capace, e fammi uscire di qui, da quest’incubo.

BEVE

(FILM) No, meglio lasciare che l’attenzione caschi sull’australe sistemazione della curva cervicale, sì, perpendicola a quel mattone di un pavimento da incrocio di tendenze,

no, di là, sul bancone, no, è scomodo guardare il bancone, forse la strada, meglio la strada, sì, la strada, però così sembra che guardi lui, gli occhiali, sì, gli occhiali da sole nella borsetta,

già, è la borsetta che prende, è dalla borsetta, poggiata sulle cosce, che estrae gli occhiali, che indossa,

e le sigarette, l’accendino, ora posso anche guardarlo, non è niente male, no, (BEVE) davvero niente male questo drink.

(AL PUBBLICO) Sì, nell’interminabile forzata attesa tra i cotillon variopinti del Mac ho immaginato il film, parla di solitudine, piccola perversa follia quotidiana, quella che t’arriva per le normali avversità dell’esistenza, quella per cui non sarà mai inventato un dottore con la giusta medicina, quella che t’arriva così. Mi sembra di vedere i personaggi accanto a me: quella coppia di amanti taciuti, stanno viaggiando in metropolitana, magari verso Lisbona, un po’ come me, non li vedete? Sono lì, accanto a voi, in metropolitana, e lì rappresentano la messa in scena di una storia d’amore tra due passeggeri come tanti, come voi. Storie d’amore, storie d’amore e di folle normalità, niente di nuovo, le solite storie, quelle di sempre.

È come se le voci di questi personaggi si materializzassero, mi sembra di vederli dappertutto, c’è un poco di loro in ognuno degli avventori del Mac. In qualcuno un gesto, un movimento della mano, un cenno del capo, un modo di dire. Sì, un modo un po’ come quei modi lì, quei modi da personaggio sempre al centro dell’attenzione, un modo per chi pensa, e sono in tanti, che il mondo non sia altro che un grosso palcoscenico, e le nostre vite la più patetica rappresentazione di un dramma al servizio di qualche drammaturgo che se ne sta lì a guardarci, da qualche parte tra gli universi e le galassie.

Ho voglia di fumare, ma che fa?, mi sta fissando di nuovo, non voglio essere osservata, lo detesto, l’accendino, Dio, che fine ha fatto l’accendino?, il cameriere, chiedo al cameriere, grazie, dovrò riprendere il rossetto in borsa, e se sbagliassi bersaglio? Dio mio, ma che diavolo di usbergo è mai questo?

(MAC) Seduta, guardo le mie gambe sfiorare di traverso il bordo del tavolino. È caldo qui dentro, abbastanza appiccicoso da… Birra!

Quest’uomo vicino a me ha davvero un bel sorriso. Una formica (GUARDA SULLA SPALLA) “che diavolo fai qui piccolina? Come ci sei arrivata, non sai che è inverno?”. Antenne in fibrillazione, chissà dove pensa d’essere capitata. Alzo la testa. Ho sete… Bevo.

BEVE - LEGGE

(FILM) E allora leggersi di nuovo tutte le volte tutte le fermate assumendo l’aria grave di chi non sa bene dove scendere, come se vi si scendesse per la prima volta, che quando la tabella manca alla vista ci si sporge un po’ tra le direttrici disegnate dalle teste dondolanti e sussultorie, magari per ignorare uno sguardo insistente, poi, alla prima occasione, io ti amo più di quanto tu non m’ami, ancora melodramma, e allora tutto o niente, allora tutto o niente, tutto o niente non si potrebbe mai chiederlo ad un amico,

ho bisogno di protezione e non di voglie che mi arrischino vergogne e dileggio. Ma che vai a pensare, farlo qui, davanti a tutti?

Instupidita da una voglia tanto da provarne stordimento, ma lei lo fa, dimentica di una fasulla castità da fanciulla in fiore, improvvisa un madrigale per quei ramoscelli affusolati come mani che affondano gli sprechi d’attenzione in uno slancio da esploratore alle prime armi, anonimo e guardingo, in segreto,

(SI TOCCA TRA LE COSCE)

guardami ancora amore mio, avviticchiare all’immagine di te questo mio pegno, guardami da lontano, farò del mio godimento un baluardo.

Purificata da un fascino di remota soddisfazione, entra in bagno, le mani sotto l’acqua corrente, subito, d’istinto, poi la porta della toilette, maniglia, apertura, ingresso, e girarsi su se stessa per chiudere una porta che è ancora troppo presto per chiuderla, o troppo tardi forse, chissà, viene il magone a pensare di dover sostenere quegli sguardi: stramaledetto il giorno in cui ho incontrato i tuoi occhi stravaganti svelare la panacea di quelle mani segrete incontrarsi davanti al mondo,

stramaledetto il giorno di quel caffè,

già, perché lui è lì, di fronte allo specchio, un attimo di esitazione, un attimo di troppo, già, perché lui si gira, di fronte a lei, occhi negli occhi, due passi, niente tavolini, niente avventori, niente camerieri, niente fermate della metropolitana, due passi e gli occhi negli occhi, incatenati, due passi, avviluppati, troppo pochi due passi per non dare tempo a quell’esitazione di fremere di desiderio, il desiderio del tracollo, il sentiero di una vertigine assoluta,

sì, adesso mi sento quello che tu mi dici in continuazione che credi che io sia,

e traspare negli occhi, e lui lo vede lo sente lo tocca e lo palesa, sguardo inequivocabile, senza appello, fa un passo,

dio mio perché non chiudi, è come se avessi la mano bloccata cara mia, non so che farci, non so che fare,

troppo audace per quel disincantato e torbido appuntamento giornaliero con lui, sempre lì, su quelle due estreme rarità della contemplazione del nulla, sempre i loro posti, sempre i loro dissipati vagheggiamenti, nell’attraversare la città sotterranea, così forse sarà meglio tornare ad osservarli nella metro, a distanza opportuna, disgiunti, per vedere se un sogno, una mescola, una miscellanea, un amalgama, un guazzabuglio, uno zibaldone d’amore senza parole valga e duri più di mille promesse e baci e carezze e passeggiate mano nella mano e speranze e compulsioni e lacrime e divorarsi il mondo intero sotto le lenzuola, il mondo dell’altro, il mondo di tutti quei sapori e quegli odori e quelle risa e quei turbamenti che ti viene tolto d’un colpo solo, così, dalle parole.

« Quando ci stancheremo di fare questo gioco? »

« Non lo so, quando vorremo ».

(MAC) E le voci continuano a girare, situazioni immaginate, in metropolitana, una strana coppia di amanti, tre fermate, Cristo, non arriveremo mai a Sétubal, Penelope disfa la tela e la nostalgia t’assale, mentre lei si prepara, come farebbe e farà tutte le mattine della sua vita pilotata, per andare a setacciare una giornata di sano lavoro occupazionale, il solito tragitto reiterato, attraversare a volo di cometa la città suburbana e la città australe, fetido sdilinguamento per un taglio ideale su quella fetta di geografia da stanziali riassunta in un coupon un po’ blasé, segnato da tante linee che lo tratteggiano da parte a parte, linea 8, 9, 10 bis, generoso archimandrita degli spostamenti, giocherellosa parte, raggiungere da un capo all’altro un altro cappio di mondo, e noi, qui, mentre il tuo film prende corpo, qui, adesso, di fronte a me, caro il mio irraggiungibile regista, forse sei solo un parto della mia fantasia, come i tuoi personaggi, e con loro anch’io, un vomito della tua. Come quella metropolitana, sinonimo di un viaggio che come il mio non porta da nessuna parte, per Ulisse è un Odissea verso Itaca, ma è fatto di fermate, tappe obbligate come questa del Mac, dove qualcuno ha notato quel giochino segreto, giornaliero, lì, sul vagone metro, per uno strano insieme di circostanze, leggero imbarazzo, e allora guardare o non guardare, sedersi vicini, reticolo di schermaglie, e infine parlarne, perché, o parlarne facendo finta di parlare d’altro.

Viaggiamo, come cosmonaute alla deriva, disperse lungo un tramonto rubino nel deserto verso Zaragoza, correndo incontro al sole senza vederne mai la discesa, figuranti di una storia che non c’è, proiettate in una macchina su una lingua d’asfalto che si perde all’orizzonte, per un viaggio che non porta da nessuna parte.

(FILM AL MAC) Guardate quei due, si osservano, a distanza.

È bella, è bellissima

pensa lui, bella come una dea incapricciata

oggi indossa calze bianche

neanche lui sa il perché, è che la vede innocente, non come lo vede lei, che è sempre lì, pronta a dirle di sentirsi trascurata, che l’ama di un amore sofferto e non crede d’essere ricambiata, ossessionata dai suoi tradimenti, presunti, quelli che non ci sono mai stati, ma se la tradisse veramente, dopotutto lei ne è convinta, per questo non vanno troppo d’accordo. Covone di manichini generici tutti con una propria storia, lacrime da telegiornale.

(MAC) …Quanto tempo perso. Arrivano altri, tutto sommato si sta bene qui. Vado in bagno, m’assento. Torno. Seduti. Italiani, parlano di trapianti.. Argomenti da Mac: «L’uomo è competente al maiale». Compatibile, penso. Si dice compatibile coglione, penso. Coglione, penso. Ma che cazzo c’entra competente. «È stato un piacere averti conosciuto», mi ha detto. «Grazie», sorrido e rispondo. Chissà poi perché, penso. A certa gente toccano strani piaceri nella vita, penso. Intanto quello attira ancora l’attenzione a sé, il suo piatto non è ancora abbastanza infarcito di autocompiacimento, infila ancora spropositi, uno dopo l’altro, e, sapete cos’è veramente strano?! Che nessuno si prenda la briga di correggerlo. Almeno per dirgli guarda che stai dicendo un cumulo spropositato di cazzate, magari quello che dici avrà pure un qualche fondamento, ma detto così, è come guardare un uomo che abbassa gli occhiali da sole puntandoti diritto negli occhi quando non se lo può proprio permettere, se capite quello che voglio dire. È che ce n’è tanta di gente così, gente che si esprime così, che si esprime, così, e ce n’è molta di più di quello che sembra.

È ora di cambiare la direzione dell’accavallamento. Le mie gambe guarderanno a est, la testa a nord-ovest. Scavalco questo tizio e sono già in Portugal. Il livello di ignorantia che c’è in giro è altamente inquinante. Rovina i panorami. Magari voi penserete macché, che è solo un’invenzione da copione, ma che cazzo d’invenzione dico io. Gente così esiste eccome. E magari costruisce case nei parchi, o dove prima scorreva un fiume, o su una tomba di qualche migliaio d’anni fa. E vota pure. Nel senso che esprime il suo parere. Branco infausto di lobotomizzati. Sì, cicala, vorrei essere cicala per frinire fino allo spasmo. Per urlare il mio fastidio al vento. «Un maxi chesseburger per favore».

Il guaio è che qui, da qualche tempo, tutti sanno tutto di tutto, tutti, e sono tutti imprenditori, pure quelli che hanno una casa da affittare sono imprenditori, e tutti, dico tutti, hanno poco pochissimo tempo, sicuramente non per leggere, tanto meno per scrivere, frequentare le parole, e con esse il senso di una vita che ha perso pure il gusto dell’ultima sorsata di birra.

È che dobbiamo lavorare, fare denaro, e per questo vado fino in Portogallo pure io. Devo fare soldi, non c’ho i soldi per andare a farmi una pizza la sera con gli amici, non c’ho gli amici per farmi la pizza se continuo così. (TRISTE) Ho bisogno di fare l’amore, adesso, ho bisogno di un uomo, lo farei anche qui, su un bancone del Mac, in bagno. Ne ho bisogno, mi capite?

Siamo solo personaggi di un film che non abbiamo scelto, noi, ma loro allora cosa sono? Voi che siete? Che pensate?

(FILM) Vediamoci, parliamone ancora, mi piace ascoltarti, ti accompagno, parliamone in superficie, davanti a un caffè, ho tempo, lezione alle undici,

sono reticenti ad ammettere d’amarsi, semplicemente,

eppure è bella,

vorrebbe farci l’amore, lui, così la osserva, ma con garbata pacata lentezza,

sembra sicura di sé, ha degli occhi lucenti,

nere ciglia protese su di lui a tratti, come gira il collo scoperto, esile e presente, come è seduta, come accavalla le gambe, già,

ha delle belle mani, mani ciarliere, molto belle,

unghie di madreperla, labbra di sabbia, i suoi occhi pane, già. Come non potrebbe saltare all’occhio costui, ma quell’occhio ce l’ha solo lei, abbarbagliato, per metà abbassato,

abbassa le sottane dico io, ho tempo, lezione quando voglio,

il tempo di un caffè e quei corpi si incontrano, ghiaccio eburneo,

chissà come sarebbe essere amati sempre da una donna così, dovrò ordinare anch’io qualcosa, un alcolico, il gin-tonic che piace tanto a lei, dovremmo amarci meglio, più sinceramente, senza sotterfugi, senza invenzioni raffazzonate, sì, la vorrei sempre accanto una così, io ti ho capita sai, un gin-tonic per favore,

sorride al cameriere lui, ha l’aria cordiale, sempre accanto, ma a trent’anni un uomo ha solo trent’anni e una donna ne ha già trenta, viverci insieme, sempre, dissimulata delizia di un capriccioso tormento, zelo sfavillante di un frutto vermiglio, e se fosse bacato, punto, infetto, marcescente?

(MAC) Dopo i trent’anni ti siedi e d’improvviso senti la pancia che s’accatasta e crea un ingombro, è che t’è cambiato il metabolismo, anche se la pancia tu non l’hai mai avuta, così, d’un tratto, senza nessun preavviso, e allora ti guardi intorno, e scopri d’essere diventata trasparente, se non hanno almeno quarant’anni non s’accorgono più di te, e allora giù, diete creme terapie rilassanti e rassodanti, o meglio, è tempo d’accasarsi, di mettere su famiglia, di crearsi un nido, come vorrebbe lei, che i trenta li ha passati da almeno un quarto d’ora della mia lettura.

(A UNO SPETTATORE) Come non potrebbe arringare l’orecchio, lei, spettatore, con il suo seguire a bassa voce la voce del rovello, del turbamento da radiocronaca, così tra una chiacchiera e un insulto quella coppia giace, giacerà.

(FILM) Lei tira su la lampo, guarda che forme, se la guardiamo di là dallo specchio funzionano, è ben fatta, ma non può certo arrivare in ufficio così, deve divisare, decidere se continuare ad essere provocante.

(FILM) Rossetto e via, le veneziane scendono a pioggia e rinculano, è tempo di uscire, un’altra giornata di lavoro, un altro tragitto in metro, fino all’altra parte della città, fino all’altra parte del tormento,

sì, tutto sommato il mio lui è più bello, ed io l’amo di un amore sincero, ma qui è diverso, qui sono di fronte a me stessa, non posso chiudermi la porta in faccia,

un attimo di esitazione, un attimo di troppo, già, perché lui è lì, sulla porta, e la mano è lì, quella di lui su quella di lei sulla maniglia, ancora un passo, lui in avanti, lei indietro, la maniglia scende, sale, chiude, così è davanti, e lo sta come abbracciando, con il braccio sinistro dietro di lui, dal fianco, la mano sulla maniglia, incastrata dalla mano di lui dietro la schiena, le bocche si sfiorano, alito caldo per alito caldo, avvinghiato da quella perseveranza che fremerebbe lei di perorare, anzi, facilmente si potrebbe dire che certe cose li divertono, motivo di torbido compiacimento e di lasciva spossatezza, lei ne sarebbe turbata, sì, da quel rapporto stabile e normale, pur continuando a pensare come sarebbe bello, lui le prende l’altra mano, sedotto da quella costanza, da quello scombuiare del ritrovarsi lì, ad ogni ameno parabolare di un sole che chissà se anche oggi c’è, sul terzo vagone della metro tutt’al più potrà trattarsi di un sole al neon, più compiacente che mille vere stelle per quell’amarsi tronco, sedotto da quello slancio nel vestire che piacerebbe a lui possedere, gliela porta al seno, sotto la camicia, poi l’altra, la sua, quella di lei, della maniglia, sul fianco, di lui, guidata da lì al petto, di lui, mentre la mano di lei guida quella dell’altro, sul seno, di lei, e le bocche continuano a sfiorarsi, ad annunciare, nessun bacio, nessun contatto, come se si conoscessero già, da sempre, e gli occhi negli occhi, lì, incatenati, senza costumanze da egolatra, neanche parole, occhi meravigliosi quelli di lei, come se ne vedono di rado, le pupille dilatate, che invitano all’ingresso, che fai dico io, ma non la vedi?, è lì, davanti a te, con gli occhi aperti, occhi meravigliosi, gli occhi che invitano, le pupille dilatate, pronte, occhi che non se ne sono mai veduti di simili, occhi da penetrare caro figlio di puttana

(RAPIDO) e lui la fa girare, di scatto, senza pensarci, di scatto, la fa girare e la piega, di scatto, la fa girare la piega e le tira su le vesti, come con rabbia, di scatto, la fa girare la piega le tira su le vesti e giù le calze, bianche, innocenti, con rabbia, di scatto, la fa girare la piega le tira su le vesti giù le calze e tira ineffabile a sé le mutandine, quasi come per strapparle, la fa girare la piega le tira su le vesti giù le calze e tira a sé le mutandine come per strapparle e afferra quelle romite bianche rotondità con trasporto,

quelle fulgide liliali rotondità da afferrare per la collottola conducendo i pensieri dalle mani alla testa, e di lì, con un moto perpetuo come di un gotto alla bocca, un pisside dello spirito, un nappo ritrovato da labbra volitive, come fosse attendendo una qualche rifrazione dell’animo nell’anima, fino alla spina dorsale e di lì giù, scorrendo sulle vertebre quel flusso caustico che amiamo chiamare brivido di mestizia scende, giù, condotto da uno spirito innocente alimentato da un puro tocco, filo di seta, fin proprio lì, giù, dove a stringerne la sensazione - come per trattenerla in un muscolo sottile e allenato - si potrebbe dire di un retropassaggio alle viscere, già, che se fosse una statuina di vetro brillante di trasparenze si confonderebbe il pulsare del cuore con quello dell’addome, per rivelarci, infine, un solo unico concetto:

come sarebbe bello vestirlo come mi piace, presentarlo al mondo, invitarlo nel mio talamo, far impallidire di vergogna i pellegrini e i pendolari in un bacio dichiarato, spontaneo come una fonte d’acqua pura, tutti quelli che non hanno un minimo di buon senso, e magari viverci insieme, e svegliandosi cantare insieme al mattino,

perché no, certi sogni fanno bene al cuore, ovvero, che sia di nobil sentimento legato al mutilato cuore, o di fulgida lussuria che rimbomba nello stomaco strozzandone fin pure il carico respiro, quel rapido tocco rubato al tatto di tanta bellezza, ingenua bellezza femminile, è fonte ispiratrice di una sola lirica, di un sol concerto, che sta a rivendicare ancora una volta un motto: che lui la vuole - e così la fa girare la piega le tira su le vesti giù le calze e tira a sé le mutandine per strapparle afferra le sue rotondità ed entra, e lei è lì, e si presta, e non capisce perché ma si presta a questo gioco, per amor suo, e invece no, tutti i giorni dell’anno lì, da cinque mesi, uno vicino all’altra, sul terzo vagone della metropolitana, fila di centro, davanti agli occhi di tutti, davanti agli occhi ignari di tutti, una mano reprimenda che scivola accanto con un rabbuffo dell’io raziocinante, tra i rimbrotti delle spinte giornaliere, della gente evasa dall’acquitrino di mill’altri condominii, gente raggomitolata dalla direzione verso un pranzo di lavoro, di sano tracollo collettivo, per amore di lui che non c’è, che è come se fosse lì ma è assente, come se fosse lì ma è da un’altra parte, così lei, che è lei, come se fosse lei ma che vorrebbe essere da un’altra parte con lui che le dice ti amo in un orecchio, ma è lì, e si presta a questo gioco, senza sapere neanche lei perché, si presta a quell’ingresso cui mai acconsente, che mai permette neppure a lui, che ama, quando sono nella loro intimità di baci e carezze e baci e sussurri, è lì, e si presta, abbassa la testa, lì, e si vede le calze bianche giù, sulle ginocchia, e pensa, e pensa di non voler pensare, non adesso, no, non è il momento di pensare, non ora, ma è più forte di lei, e allora quella mano scivola giù, rappattumata, claudicante, indecente e disarmata, e giù, sotto le coltri separatrici dagli inopportuni occhieggiamenti fatui, sopra il velabro cinerario dell’empietà maschile, quel fragore di carne così destreggiamente esposto a quel tipo di assalti, così si scosta, con la stessa fermezza dell’altro,

(RAPIDO) di scatto, si scosta e si gira, di scatto, si scosta si gira e siede, decisa, di scatto, si scosta si gira siede e alza una mano, due, decisa, d’un tratto, per non pensare, si scosta si gira siede alza le mani e lo bacia,

(LENTO) lì, nell’intimo di una pletora soddisfazione, decisa, di scatto,

(RAPIDO) si scosta si gira siede alza le mani lo bacia e con la gola preme, su di lui, e ritorna, su di lui, e preme, decisa, su di lui, spiccia, senza pensare, si scosta, preme, ritorna, si scosta, preme, ritorna, ingoia e lascia che una kermesse di labile dripping argenteo le decori il viso,

così lui la guarda, lei no, tramoggia, setaccia il pavimento scaricando così tutta la schizofrenia del suo sguardo, lui si ricompone, lei guarda a terra, sempre lo stesso fremito, e poi quello sguardo fisso, ogni giorno, ognuno dei due, un’invasione al giorno, un giorno l’uno un giorno l’altra…

Il tema del ritorno a casa, in un porto conosciuto, sicuro, sì, il tema del ritorno nella stessa azione, della stessa scena, torneremo tutti presto, ognuno alla sua Itaca, povera Calipso, lascerai tornare Ulisse tra le braccia di una donna che ha amato sette anni meno di te, che magari non ha mai giaciuto tra le sue braccia sebbene è la sua sposa, ma si sa, la nostalgia ha la meglio su qualunque nuovo amore, è il rimpianto dell’altro che ti spinge ancora a lui, il rammarico di ignorare cosa accada nel suo mondo una volta che tu sei lontano, e che per questo reputi che il suo mondo sia anche il tuo, povera Calipso, sarai più amata quando Ulisse sarà di nuovo tra le braccia della sua Penelope, allora sarai tu a mancare, tu mi manchi, e così io ti amo come non mai e nonostante le nostre incomprensioni non potrei mai lasciarti, non sopporterei la mia vita senza di te,

e allora tutti i giorni gli sguardi fissi, in avanti, in su, sulla tabella dell’inverosimile, sulle bachechette indegne delle fermate della metro, sui passi di quelli che escono, e lui esce chiudendo la porta dietro di sé. Lei si guarda, le calze bianche, si alza, le calze bianche che tanto piacciono a lui, chissà poi perché, si risistema, la mano sulla maniglia, esce senza clamore ed è uno schianto, mentre lui è lì, ancora lì, sulla soglia di quel caffé, per uscire, ma senza fretta, quasi come se volesse essere seguito, lei fa per pagare,

il conto è già saldato,

e da chi?,

quel signore che sta uscendo,

sorriso al cameriere,

grazie,

grazie a lei,

esce, lo segue, a distanza, chissà poi perché, e lui sa di essere seguito, rallenta, le concede il tempo, scende le scale, timbra il biglietto, entra, scende ancora, e lei è lì, a distanza, che armeggia con la borsetta, un po’ impacciata,

il biglietto, sì, debbo averlo ficcato da qualche parte,

le scale, giù, più giù, ancora a rimbeccare, più dentro, dietro l’ultimo angolo, il vagone aperto, lui al centro, in piedi, riottosi a uno scontro diretto, sulla fermata, sulla porta che si apre e chiude ad ogni fermata e consente a quel tramestio di camuffare quelle incursioni, vicino a due o tre signori dall’aria distinta, distolta, dissennata, come se non dovessero appartenere a questo mondo, poi un’altra coppia seduta, si direbbe di amanti che non si guardano, lei lo guarda, con quegli occhi bellissimi, di nuovo lo guarda con quegli occhi rari, e lo affianca. senza remore si avvicina a quell’uomo trafelato, una donna bellissima, con degli occhi rari, lo bacia sulle labbra alzando di poco i tacchi con un gesto innocente, un po’ come le calze bianche che indossa, e che j’attach pour la dernière fois - fisso per l’ultima volta:

« Quando ci stancheremo di fare questo gioco? »,

gli dice davanti a tutti gli altri che non possono fare a meno di sentire e di chiedersi di quale strano gioco possa mai trattarsi,

« Non lo so, quando vorremo ».

 La porta si chiude, la metro riparte.

 (SI INTERROMPE. SI GUARDA INTORNO. SCRIVE)

Scena prima. Autostrada, interno di un’automobile, giorno. Una donna è sdraiata sul sedile posteriore, sta leggendo, ad alta voce, mentre due sue compagne sono davanti. Titoli. Voce off. Diario di viaggio. 28 dicembre. Statale E 80. Abbiamo appena passato St. Martin de Crau, sul prolungamento della A 54, arrivando da Aix-en-provence sulla A 7. È sera. L’auto sta dando segni di cedimento, c’è una specie di centro commerciale, sulla destra. Credo converrà fermarsi. Tra appena tre giorni sarà già un nuovo anno. Leggerò. Speriamo di non dover pensare…

MUSICA.

BUIO


Federico Caramadre 2000
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